Queer è un film del 2024 diretto da Luca Guadagnino, con un cast di rilievo: Daniel Craig, Drew Starkey, Jason Schwartzman, Lesley Manville, Michael Borremans, Andra Ursuta e David Lowery.
Sinossi:
Ambientato nella Città del Messico degli anni ’40, Queer racconta la storia di William Lee (Daniel Craig), un americano fuggito da New Orleans per evitare un arresto legato alla droga. A Città del Messico, Lee trascorre le sue giornate tra bar malfamati frequentati da espatriati, reduci di guerra e altri reietti. Lì s’innamora perdutamente di Eugene Allerton (Drew Starkey), un ex marinaio tossicodipendente, che accetta le sue attenzioni solo quel tanto che basta a trasformare il desiderio di Lee in un’ossessione. I due intraprendono un viaggio nel cuore del Sud America alla ricerca dello Yagé, una pianta allucinogena che secondo Lee potrebbe risvegliare poteri psichici.
Recensione:
Dopo Nicole Kidman in Baby Girl, è stato il turno di Daniel Craig a donare corpo e anima a Luca Guadagnino per interpretare, probabilmente, il ruolo più estremo e complesso della sua carriera. Pare ormai prassi a Hollywood che, superata una certa età, per aspirare a una candidatura agli Oscar serva almeno una scena al limite del sadomaso softcore. Che qui, va detto, rasenta talvolta il cattivo gusto.
Queer era uno dei titoli più attesi dell’81ª Mostra del Cinema di Venezia, anche solo per la curiosità di vedere l’ex James Bond nei panni di un queer di mezza età. E togliamoci subito il dubbio: Daniel Craig è eccezionale. Non solo regge la prova, ma la supera a pieni voti, abbandonando del tutto l’ombra dell’agente 007 per trasformarsi in William Lee con intensità, eleganza, vulnerabilità e una fisicità magnetica.
Craig è al tempo stesso malinconico, ironico, decadente, romantico, sexy, tossicodipendente e tragicomico. Un vero camaleonte. Senza di lui, Queer sarebbe francamente da “denuncia cinematografica”.
Il problema è tutto il resto.
Nonostante la prova monumentale di Craig, Queer è – a nostro modesto parere – il film meno riuscito di Guadagnino. Peggiore perfino di quel pastrocchio di Splash, presentato sempre a Venezia qualche anno fa.
Il film vorrebbe essere una storia d’amore ossessiva, distruttiva, sensuale. Il legame tra Lee ed Eugene dovrebbe vibrare di tensione e struggimento. Ma il problema è che tutto questo non arriva. Non per colpa di Craig, che in ogni scena, anche quelle più spinte, riesce a trasmettere emozione, urgenza, bisogno. Il suo personaggio vive e pulsa. Ma recita nel vuoto. L’interesse amoroso, interpretato da Drew Starkey, è inespressivo come un manichino. La chimica è assente. E la sceneggiatura, al netto di qualche guizzo nel primo capitolo (Ti piace il Messico?), si perde in un delirio onirico privo di coerenza e ritmo.
Il secondo segmento, Compagni di viaggio” tocca vette involontarie di comicità. Il viaggio in Sud America alla ricerca della droga miracolosa si trasforma in un trip senza senso, tra crisi d’astinenza e jungle da cartolina. Il tutto condito da una regia manierista, pretenziosa, che sacrifica la narrazione per il feticismo visivo.
L’epilogo, Il ritorno, chiude il cerchio con la stessa inconsistenza del secondo atto, lasciando allo spettatore solo il sollievo della parola fine.
Conclusione:
Queer è l’ennesimo tentativo di Guadagnino di raccontare un amore tormentato, viscerale, visivo, sulla scia di Chiamami col tuo nome. Ma qui manca l’anima. E soprattutto manca un Eugene credibile. L’unica vera emozione arriva alla fine: quella di vedere finalmente terminare il viaggio di Lee… e il film stesso. Un’opera che voleva parlare dell’amore come ossessione, e che finisce per ricordarci solo la fortuna e la tragedia di aver amato, anche – o forse soprattutto – da queer.