I colori del tempo è un film del 2025 scritto e diretto da Cèdric Klapisch, con :Suzanne Lindon, Abraham Wapler, Julia Piaton, Vincent Macaigne, Zinedine Soualem.
Trama :
Un gruppo di persone che non si conoscono — o che preferirebbero continuare a non conoscersi — viene convocato per un’eredità: una vecchia casa in Normandia, ferma nel tempo come un libro lasciato aperto da decenni.
Da qui parte un doppio movimento. Nel presente, gli eredi frugano tra mobili stanchi, fotografie sbiadite, lettere mai spedite. Nel passato, la storia di Adèle Meunier prende forma: una giovane donna della Belle Époque che lascia la provincia per una Parigi in pieno fermento artistico, tra pittori visionari, fotografi in cerca di luce e una città che cambia come un quadro sotto pioggia improvvisa.
Il film alterna epoche diverse, intrecciando i frammenti della vita di Adèle con quelli degli eredi moderni. Due tempi lontani che si parlano, si somigliano, si riflettono.

Recensione
Cédric Klapisch non gira un film sul tempo: lo cucina a fuoco lento. Lo mescola come un pittore che aggiunge acqua ai colori per vedere cosa rimane, cosa sbava, cosa invece resiste alle intemperie della memoria.
Un racconto che respira
La parte più bella del film è il modo in cui i due piani temporali si intrecciano senza fare rumore. Non c’è il classico salto nel passato che vuole insegnare una morale; qui il passato arriva come arrivano le vecchie case: attraverso l’odore di legno, le fotografie rovinate, un oggetto che ti cade in mano e ti mette malinconia senza capire perché.
Il ritmo è morbido, quasi pudico: Klapisch non alza mai la voce, ma costruisce immagini che restano addosso. La Parigi della Belle Époque è luminosa senza diventare cartolina, mentre il presente è pieno di smagliature contemporanee — non tragedie, ma quelle incrinature quotidiane che ci portiamo tutti dietro.
Gli eredi: imperfetti come noi
Gli eredi funzionano perché non sono simpatici per forza. Hanno difetti, ansie, frustrazioni troppo moderne per stare comodi in una casa del 1900. Sono goffi, spesso comici, talvolta irritanti. Ma è proprio questa normalità un po’ stropicciata a rendere credibile il confronto con Adèle, che invece incarna un passato emotivamente più “grande”, più colorato, più coraggioso.

Adèle: il cuore del film
Il personaggio di Adèle è uno di quelli in cui Klapisch si diverte di più: la segue con grazia, con malinconia, con la voglia di mostrarci un’epoca in cui tutto sembrava possibile e niente era davvero semplice. È un personaggio che rimane, anche quando il film scivola verso qualche facilità narrativa di troppo.
Tra nostalgia e leggerezza
La vera forza de I colori del tempo sta nella sua leggerezza malinconica. È un film che parla di radici, di ciò che ereditiamo senza saperlo, di quello che lasciamo cadere nel tempo e di ciò che invece resta appeso alla memoria. Non pretende mai di essere più profondo di così. Non cerca il colpo di genio. Lascia spazio all’aria, ai silenzi, ai piccoli sorrisi.
Qualche passaggio è prevedibile? Sì. Alcuni personaggi moderni potevano avere un respiro più ampio? Anche.
Ma il film, nel suo modo gentile e un po’ imperfetto, sa dove vuole andare.
In conclusione
Sì, perché esci dalla sala con quella sensazione strana di aver passato un’ora e mezza in una casa che non era tua ma che, per qualche motivo, ti sembrava familiare.
È un film che non urla, non sgomita, non fa il brillante.
Fa una cosa migliore: resta.
E in tempi di cinema che vuole continuamente impressionare, un film che sceglie di commuovere con discrezione è quasi un atto rivoluzionario.

























